L’albero della Bodhi
Visto il ruolo di vitale importanza ricoperto dalle piante per la sopravvivenza dell’uomo e di tutte le altre forme di vita animali sul nostro pianeta, non sorprende il fatto che alcune specie vegetali abbiano assunto un significato simbolico associato alla spiritualità e alle forme religiose di tutto il mondo. Anche se nella Genesi Dio ‘si dimenticò’ delle piante quando ordinò a Noè di portare con sé sull’arca «Due di ogni specie di uccello, di ogni specie di animale e di ogni creatura che si muove sulla Terra» per salvarle dal diluvio universale, fu poi un ramoscello di ulivo portato da una colomba a indicare che alcune terre erano riemerse e che la vita su di esse sarebbe stata di nuovo possibile.

Se ci spostiamo dal monte Ararat verso il sud-est asiatico incontriamo uno degli alberi più venerati del mondo. Da molto prima che Linneo gli attribuisse il nome di Ficus religiosa, questo albero era sacro per buddisti, induisti e giainisti. Viene anche chiamato Peppal, scelto dal dio indù Krishna come propria rappresentazione, o albero della Bodhi, perché durante la meditazione sotto un esemplare di questa specie a Bodh Gaya in India Siddhartha Gautama, il Buddha, raggiunse l’illuminazione (bodhi, in sanscrito).
La leggenda racconta che quell’albero fu avvelenato dalla regina Tissarakkhā moglie del sovrano dell’impero Maurya Aśoka, gelosa delle attenzioni dedicate all’albero dal marito. A quello originale sono stati sostituiti più alberi, ma ogni volta con nuovi esemplari discendenti dall’originale. Nel 249 a.C. Saṅghamittā, figlia dell’imperatore Aśoka, seguì le indicazioni del Buddha e portò un ramo dell’albero originale in Sri Lanka, dove fu piantato nell’antica capitale Anuradhapura e contribuì alla diffusione del buddismo sull’isola.
Vista l’importanza simbolica dell’albero, non sono mai state eseguite datazioni con metodi scientifici invasivi come la dendrocronologia – conta degli anelli di accrescimento del tronco. Tuttavia, le ricostruzioni storiche hanno portato i fedeli e le autorità locali a sostenere che l’esemplare piantato da Saṅghamittā sia lo stesso che cresce ancora oggi nel sito sacro Jaya Sri Maha Bodhi. Ciò ne fa il più antico albero piantato dall’uomo di cui si conosca l’età.
Oggi il Sri Maha Bodhi è circondato da un muro costruito nel XVIII secolo per proteggerlo dall’irruenza degli elefanti selvatici. Rappresenta uno dei siti religiosi buddisti più importanti al mondo e ogni giorno centinaia di fedeli vi si recano per offrire acqua e boccioli di fiori di loto appena sfogliati all’albero sacro. Questo sito è tristemente conosciuto anche per il massacro di Anuradhapura compiuto nel 1985 da parte del gruppo terroristico delle Tigri Tamil.

La caratteristiche più facilmente riconoscibili dell’albero della Bodhi sono sicuramente le grandi foglie a forma di cuore con la punta particolarmente allungata. Il poema religioso induista Bhagavadgītā raccomanda di onorare il Bodhi come l’albero «le cui foglie sono sempre in movimento», mentre nel Canone pāli buddista è chiamato Ashwattha, che deriva dal sanscrito e significa ‘quel che non resta uguale domani’. Questo profondo significato simbolico, che rimanda alla teoria del continuo mutamento dell’universo tipica delle religioni orientali, potrebbe essere dovuto alla particolare morfologia delle foglie, capaci di catturare anche il minimo movimento dell’aria.


L’albero della Bodhi appartiene al genere Ficus, che comprende circa 850 specie diffuse nelle aree tropicali e temperate. Tra queste troviamo il sicomoro (F. sycomorus) albero sacro della mitologia egizia e citato nel vangelo, il baniano (F. benghalensis) con le sue enormi radici aeree, il fico strangolatore (F. watkinsiana), il Ficus elastica usato nella produzione del caucciù, il Ficus banjamina che cresce nei nostri appartamenti, e il familiare Ficus carica, l’unico che comunemente chiamiamo fico e di cui mangiamo i ‘frutti’ estivi. ‘Frutti’ tra virgolette perché tutti i Ficus, incluso il Bodhi, non producono veri e propri frutti ma infiorescenze cave, dette siconi, all’interno delle quali sono racchiusi moltissimi piccoli fiori. I siconi presentano un’apertura dalla quale possono entrare gli insetti impollinatori con cui ciascuna specie di Ficus stringe uno stretto rapporto di simbiosi e reciproca dipendenza. I fiori pertanto non sono visibili dall’esterno, e da qui il proverbio bengalese:
«Devi diventare [invisibile come] il fiore del dumur»
Foto di Alice Breda