Olio di palma in breve: cosa, come, dove
Negli ultimi giorni, anche a causa dell’intervento del ministro dell’Ecologia francese Ségolène Royal che ha dichiarato «Dobbiamo smettere di mangiare la Nutella perché contiene olio di palma», si è riacceso il dibattito sull’utilizzo di questo olio nell’industria alimentare.
Cos’è l’olio di palma?
Si tratta di un olio che difficilmente troveremo “al naturale” sulle nostre tavole, ma che è ampiamente utilizzato nella preparazione di molti prodotti da supermercato come cibi pronti, creme, biscotti, saponi e cosmetici. L’utilizzo dell’olio di palma nell’industria alimentare è un evento relativamente recente, favorito dal basso prezzo commerciale di questo prodotto.
L’olio di palma contiene naturalmente elevate quantità di grassi saturi, ben noti al grande pubblico per il fatto che un consumo eccessivo può causare disturbi metabolici e cardiovascolari. L’acido palmitico è il principale acido grasso saturo dell’olio di palma (44%), bilanciato dalla presenza di acido oleico monoinsaturo (39%) e acido linoleico polinsaturo (11%).
Fino al 2014, la presenza di olio di palma nei prodotti da supermercato non era specificamente indicata in etichetta, poiché questo ingrediente era segnalato all’interno della categoria generica degli “oli vegetali”. La presa di coscienza da parte dei consumatori della presenza di questo olio in molti alimenti ha forse contribuito ad accendere il dibattito sui rischi derivanti dall’utilizzo dell’olio di palma per la salute. Al momento, non ci sono evidenze che indichino che l’olio di palma non vada trattato al pari di altri alimenti ricchi di grassi saturi. È bene che questi non superino la soglia del 10% sul totale delle calorie assunte giornalmente perché un consumo eccessivo può portare a disturbi cardiovascolari, ma allo stesso tempo è importante mantenerne un apporto adeguato all’interno di una dieta bilanciata. Sebbene si tratti di un olio naturalmente privo di colesterolo, alcuni degli acidi grassi che lo compongono sono inclusi tra le sostanze responsabili dell’aumento del colesterolo ematico. Tuttavia, questo olio contiene acidi grassi monoinsaturi, che favoriscono la sostituzione del colesterolo “cattivo” LDL con il colesterolo “buono” HDL. Esistono anche degli studi che evidenziano come il consumo dell’olio di palma potrebbe avere alcuni effetti benefici: i nuovi metodi di raffinazione che mirano a mantenere un più alto livello di micronutrienti, consentono di ottenere un prodotto finale ricco di β-carotene e vitamina E, molecole antiossidanti con la capacità di contrastare la produzione di colesterolo.

Come viene prodotto?
I frutti della palma da olio sono chiamati drupe e sono raccolti in grappoli sferici molto compatti che ne contengono fino a duemila. La drupa racchiude un seme molto ricco di grassi da cui si ricava un olio detto di palmisto o di kernel. L’olio di palma vero e proprio è invece estratto dalla polpa del frutto, il mesocarpo, che contiene tra il 40% e il 60% di grassi. Il processo prevede una prima fase di cottura, pressatura e filtraggio da cui si ottiene un prodotto rossastro, dolce e profumato, ricco di carotene e vitamine. La successiva raffinazione rimuove gran parte di queste sostanze benefiche e rende l’olio molto chiaro e insapore, più adatto all’utilizzo nell’industria alimentare.

Le palme da olio appartengono a due specie del genere Elaeis. Quella maggiormente utilizzata è E. guineensis, originaria dell’Africa occidentale. L’altra, E. oleifera, è di origine sudamericana ed è considerata una potenziale risorsa per il miglioramento genetico di questa coltura. L’interesse per E. oleifera risiede nella possibilità di trasmettere i suoi interessanti caratteri agronomici, quali la taglia ridotta ed un maggior contenuto in acido oleico, ad ibridi inter-specifici con E. guineensis, con cui è facilmente incrociabile. E. guineensis è la pianta da olio coltivata con la più alta resa: quasi 4 tonnellate all’anno di olio per ogni ettaro di terreno. A confronto, l’ulivo è quasi 10 volte meno produttivo, con solo 0.44 tonnellate per ettaro in Italia. Dal continente africano in cui ha avuto origine, è stata introdotta in Brasile dagli spagnoli nel XV secolo. In seguito, gli olandesi la portarono in Indonesia, e da lì si diffuse all’India, alla Malesia e al resto del Sud-Est asiatico come pianta ornamentale. Solo all’inizio del secolo scorso ha avuto inizio il suo utilizzo in ambito commerciale e, oggi, se ne ricavano 65 milioni di tonnellate l’anno a livello mondiale. Per fare ancora un confronto con l’olio di oliva, la produzione mondiale ammonta a 3 milioni di tonnellate l’anno.
Dove viene prodotto e consumato?
Attualmente, i principali paesi produttori ed esportatori di olio di palma sono l’Indonesia e la Malesia, seguiti da Thailandia, Colombia e Nigeria. L’Europa, che non produce olio di palma, ne importa e consuma quasi 7 milioni di tonnellate ogni anno.

Negli ultimi decenni la domanda di olio di palma è aumentata esponenzialmente e si prevede che continuerà ad aumentare. Si è passati da 25 milioni di tonnellate prodotte nel 1970 a 150 milioni nel 2010. La produzione dell’olio è di importanza fondamentale per l’economia dei paesi esportatori e, ad oggi, si stima che in Malesia e Indonesia due milioni di persone siano direttamente coinvolte nella coltivazione della palma. Tuttavia, questa coltivazione ha conseguenze preoccupanti per l’ambiente di queste regioni, naturalmente ricoperte da foreste pluviali ricche di biodiversità. La deforestazione praticata per far spazio a terreni coltivati a palma ha causato la distruzione dell’habitat di molte specie animali, di cui alcune a rischio di estinzione, come l’orangutan, il rinoceronte e l’elefante di Sumatra. Su larga scala, la deforestazione provoca una riduzione della capacità dell’ambiente di sequestrare carbonio dall’atmosfera (carbonio verde). Allo stesso tempo, la rimozione della biomassa e gli incendi utilizzati per deforestare causano un’immissione netta di anidride carbonica, che contribuisce in modo decisivo al surriscaldamento globale.

Negli ultimi anni sono nati diversi progetti, tra cui la Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO) e Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation (UN-REDD), che mirano alla riduzione dell’impatto ambientale delle coltivazioni di palme da olio con la collaborazione dei governi, degli agricoltori e dei trasformatori. Tuttavia, valutazioni recenti hanno evidenziato come il tasso complessivo di perdita di biodiversità non sia diminuito. Uno studio pubblicato questo mese dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences ha analizzato il problema a Sumatra, isola indonesiana fortemente colpita della deforestazione associata alla coltivazione dell’olio di palma. I loro studi hanno confermato che i progetti di protezione dei terreni di proprietà statale e delle ridotte aree di foresta primaria residue rappresentano un approccio inefficiente. È invece necessario che le strategie di conservazione riconoscano l’importanza dei grandi proprietari terrieri che, al momento, non vengono tenuti in considerazione nei programmi di protezione e ricevono scarsi incentivi per salvaguardare la biodiversità dei propri terreni. La soluzione proposta da questi ricercatori consiste nel proibire ai proprietari l’inclusione di nuove aree deforestate e imporre il mantenimento di una parte dei loro terreni allo stato di foresta. Gli agricoltori dovranno anche coordinarsi tra loro in modo da dare continuità spaziale alle aree conservate ed evitare la frammentazione degli habitat che causa un’elevata perdita di biodiversità. Per incentivare i proprietari delle piantagioni a seguire tali norme, gli autori propongono di aumentare i prezzi dei prodotti finali, i quali riceveranno una certificazione di produzione sostenibile. Le indagini del gruppo di ricerca hanno indicato che i consumatori sarebbero disposti a pagare tra il 15% e il 56% in più per l’acquisto di prodotti che riportano questa certificazione in etichetta, determinando un vantaggio per i produttori più attenti alla sostenibilità. Si tratterebbe di un approccio complementare da affiancare a iniziative di protezione e conservazione già attive che, da sole, si sono finora dimostrate inefficaci.
Bibliografia:
– Bateman, I., Coombes, E., Fitzherbert, E., Binner, A., Bad’ura, T., Carbone, C., Fisher, B., Naidoo, R., & Watkinson, A. (2015). Conserving tropical biodiversity via market forces and spatial targeting Proceedings of the National Academy of Sciences, 112 (24), 7408-7413 DOI: 10.1073/pnas.1406484112
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